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Cosa si intende per accanimento terapeutico?

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOIl conflitto filosofico della “dolce morte”. Un pensiero libero sull’uomo e la morte

 

E’ bene soffermarsi un po’ su questo argomento per l’incertezza che regna sovrana nei parenti dei pazienti gravi e per il concetto che si alterna tra il personale medico e paramedico nella definizione esatta di “accanimento”.

La parola è già bruttissima e dà l’impressione di qualcosa di negativo, quando invece consiste in uno sforzo, talora ai limiti della resistenza, di sanitari che non vogliono dire, o lo vogliono dire il più tardi possibile, che è “finita”. Cosa è “finita”? La battaglia per la vita, e, prescindendo dai casi dei risvegli imprevedibili che richiederebbero una discussione lunga a parte, ma limitandoci brevemente ai pazienti tumorali o in preda a malattie non guaribili nei riguardi dei quali necessita un particolare riguardo professionale, morale, umano e fisico.

Penso e credo che con me tanti sanitari siano d’accordo, che il concetto di “mantenere in vita” debba essere il primo ineludibile e mai trascurabile “memento” per cui non si è degni di chiamarsi medici o infermieri se lo si rinnega.

Dal concetto dell’aborto, definito “olocausto” da Sua Santità, alla decisione di staccare la spina o di abbandonare le cure possibili, riducendo ad un morfinodipendente il paziente, c’è una bellissima strada: il tentare il possibile senza nascondersi dietro un dito, dicendo «ma tanto non si può guarire», arrogandosi il diritto che all’uomo non spetta, quello di vita e di morte o di pensare che il paziente forse vorrebbe continuare a curarsi.

Ricordandosi sempre che tale evento può succedere a ciascuno di noi, nei momenti della decisione che il medico deve prendere ritengo, senza tema di smentita da chi fa il medico sul serio, che tutte le vie vanno intraprese, che quando la sofferenza (che solo la fede può aiutarci spesso a comprendere) induce anche il paziente a “scegliere la morte”, si può diventare corresponsabili anche moralmente di eventuali suicidi o della negazione della “speranza” che nella vita ci fa superare tanti ostacoli.

Concluderei sostenendo che la vita va protetta al massimo; qualora il paziente non fosse cosciente, e si presumesse con competenza e coscienza che stesse soffrendo oltre i limiti della sopportazione, nonostante le cure assai progredite, i parenti si dovrebbero assumere la responsabilità, sempre, di sospendere quell’alito di vita che potrebbe, anche all’improvviso, trasformarsi in miglioramento, stabilizzazione in meglio o in guarigione.

 

Giuseppe Maria Pigliucci* Titolare dell'insegnamento di Patologia e Terapia Chirurgica, Responsabile del servizio ambulatoriale di Ipertermia clinica del Policlinico dell'Università Tor Vergata di Roma 

  

  

 

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